Lo spettacolo

Cave!: in latino è un monito (Cave canem!) , in veneto è la richiesta di spostarsi (Cavete!) , in italiano è il nome di quelle gigantesche buche che, conficcate nei territori di tutta Italia, stanno lì come un monito. Che hanno costretto e ancora costringono le campagne a spostarsi, a scavare in basso per costruire in alto capannoni, residence, villette. Un territorio che visto dall’alto ha tanti occhi. Tante laghi artificiali, tante gigantesche buche bianche.

Un territorio che, a partire dal Veneto per arrivare a tutta Italia, si racconta in un testo inedito un po’ comico e un po’ dolente, a partire dalla descrizione dei suoi recinti, delle sue paure, delle nuove lottizzazioni che negli ultimi 50 anni hanno trasformato il paesaggio. Un’immagine del territori, della geografia delle paure, delle manie e delle economie che hanno ridisegnato le campagne e le città.

È il racconto di una giornalista che deve scrivere un reportage sul Nordest, lontano da banali luoghi comuni, e parte in bicicletta per un lunga “cavalcata” lungo la pianura padana, come metafora dell’uso e del consumo del territorio d’Italia. Osservando.

una scena dello spettacolo

E le osservazioni sono tutt’altro che scontate. Perché, ad esempio, le finestre e le porte delle case raccontano una storia e testimoniano un cambiamento profondo di abitudini. Prima erano piccole e orientate a sud per catturare il sole, adesso sono grandi con serramenti in alluminio. Ma servono termosifoni e aria condizionata perché non trattengono più né caldo, né freddo. Mentre le porte di casa diventano portoncini blindati. E tutt’intorno alle case sorgono siepi, steccati, mura divisorie, cancelli, ringhiere. E cemento, cemento a ricostruire sicurezze che non ci sono più. Cemento come paradossale antidoto alla crisi, come volano dell’economia.

Mentre una Biancaneve da giardino guarda sbalordita e un leone alato controlla gli improbabili malintenzionati, pian piano la casa diventa un fortino sotto assedio. Attorno c’è un mondo pericoloso e all’interno c’è tutto quello che serve: una gelatiera elettrica per non andare al bar, una friggitoria per non andare al ristorante, canali satellitari e internet per evitare di recarsi dal giornalaio, play station per non portare i bambini al parco e televisione per non viaggiare.

«Non è un inno nostalgico ai tempi passati. Perché solo sessanta- settant’anni fa questa terra era dannatamente povera. Certamente è il tentativo di indagare un territorio nella convinzione che non siano sufficienti due generazioni per cancellare il mito del paese entro cui circoscrivere la nostra storia» commenta l’autore

Il lavoro mette il dito nella piaga “paesaggio” senza indulgere in facili stereotipi. Come quando parla delle cave. In modo asciutto la giornalista-attrice confronta le planimetrie di un territorio che, nel corso degli anni, è stato “rotto” da centinaia di cave, qualcuna riempita d’acqua e somigliante a strani occhi azzurri, qualche altra secca, qualche altra ancora riempita di rifiuti e ricoperta di terra verde fino a diventare una collinetta dove le famigliole, la domenica, vanno a fare il pic-nic. «Più il paesaggio trevigiano cresceva in altezza, con fabbriche e palazzine, e più la campagna sprofondava, scavata fino nel profondo per fornire la ghiaia» sottolinea Franceschini.

Una logica -questo il cuore del messaggio- che contrappone l’interesse privato, l’interesse del privato, con la gestione collettiva del territorio, bene comune e da preservare. Una amara verità che sarà scandita, sul palco, dalle immagini proiettate su un fondale bianco alle spalle degli attori. Mentre il leone alato e Biancaneve predicano la loro morale.

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